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Disturbo Bipolare, non sempre gli psicofarmaci funzionano

Disturbo Bipolare, non sempre gli psicofarmaci funzionano

terapie
Durante gli episodi maniacali, una persona può sperimentare euforia, energia elevata, impulsività, ridotto bisogno di sonno e comportamenti rischiosi.

Tratto da “INDAGINE SU UN’EPIDEMIA” di Robert Whitaker, edizioni Giovanni Fiorini Editore

Vorrei segnalare che, nella storia della medicina, ci sono molti esempi di situazioni in cui la maggioranza dei medici ha fatto qualcosa che poi si è rivelata sbagliata. L’esempio migliore è il salasso, che è stato l’intervento medico più utilizzato dal primo secolo a.c. fino al 1800

Nassir Ghaemi, Conferenza APA al Tufts
Medical Center (2008)

Gli antidepressivi possono aumentare la durata della fase depressiva

Secondo Nassir Ghaemi, del Tufts Medical Center, gli antidepressivi possono indurre viraggi in senso maniacale e far entrare i pazienti in “cicli rapidi”, aumentando la durata complessiva delle fasi depressive.

Post aggiunse che i “cicli rapidi”, portano verso un’evoluzione molto negativa.

“Molti studi scientifici presenti in letteratura ci dicono che il numero di episodi è associato a una frequenza maggiore di deficit cognitivi“.

“Noi stiamo contribuendo a più episodi, a più resistenza al trattamento, a più deficit cognitivi e ci sono dati che dimostrano che quattro episodi depressivi, unipolari o bipolari, raddoppiano il rischio di demenza in età avanzata. E questo non è l’ultimo di questi problemi: negli Stati Uniti, le persone che soffrono di depressione, disturbo bipolare e schizofrenia hanno un’aspettativa di vita dai 12 ai 20 anni inferiore rispetto a coloro che non hanno problemi psichiatrici“.

Erano parole che sancivano il fallimento di un paradigma di trattamento basato su terapie farmacologiche che portavano ad una sintomatologia persistente, a deficit cognitivi, e anche a morte prematura.

Post trasse questa conclusione: “Avete appena sentito che una delle cose che siamo abituati a fare non produce risultati a lungo termine. Cosa diavolo stiamo facendo, e dovremmo fare in alternativa“?

Le dichiarazioni continuarono, rapide e impetuose.

La psichiatria disponeva, ovviamente, di quella “base di prove scientifiche di efficacia” che giustificavano l’uso degli antidepressivi nel disturbo bipolare, ma – secondo l’opinione di Post – “gli studi clinici randomizzati condotti dalle aziende sono sostanzialmente inutili dal nostro punto di vista, come clinici… non ci dicono quello che di cui abbiamo davvero bisogno, come rispondono i nostri pazienti e come procedere oltre, quando non rispondono al primo farmaco, e quanto a lungo devono proseguire l’antidepressivo”.

“E’ solo una piccola percentuale a rispondere positivamente a questi trattamenti di scarso valore, cioè gli antidepressivi“.

Quanto agli studi randomizzati più recenti (finanziati dalle aziende farmaceutiche) che avevano dimostrato elevate percentuali di ricadute tra i pazienti bipolari che interrompevano gli antipsicotici, e che servivano da base scientifica per proseguire il trattamento con antipsicotici a lungo termine, Goodwin dichiarò che “erano stati costruiti in modo tale da ottenere il massimo di ricadute nel gruppo placebo”.

“Questi risultati non provano che il farmaco sia ancora necessario; provano che, se sottoponete a un brusco cambiamento un cervello che si è adattato a un farmaco, andate incontro alla ricaduta“.

Post aggiunse: “Proprio ora, cinquant’anni dopo la comparsa dei farmaci antidepressivi, non sappiamo ancora come trattare la depressione bipolare […]”

Trent’anni prima, Guy, Chouinard e Barry Jones avevano suscitato allarme, tra gli psichiatri, con le loro conferenze sulla “psicosi da ipersensibilità” indotta dai farmaci e ora veniva loro chiesto di prendere coscienza che l’evoluzione dei disturbi bipolari era peggiore oggi di trent’anni prima, e che gli antidepressivi ne erano probabilmente responsabili.

Anche gli stimolanti sembravano contribuire a un peggioramento del decorso del disturbo bipolare e, quindi, Ghaemi suggerì al pubblico che era consigliabile adottare un approccio di tipo “ippocratico” nell’uso dei farmaci, evitando di prescriverli nei casi in cui non ci fossero solide prove di una loro efficacia a lungo termine.

“Noi siamo gli esperti della diagnosi, non della distribuzione di farmaci“: a questa affermazione, alcuni dei presenti, che erano già in agitazione, reagirono fischiando.

“E’ possibile che cinquantamila psichiatri sbaglino?” riferendosi all’uso degli antidepressivi come trattamento del disturbo bipolare.
“Credo che la risposta più probabile sia sì” concluse Ghaemi.

Riporto il più fedelmente possibile questi articoli, in quanto, essendo una denuncia piuttosto evidente dell’operato della psichiatria moderna nell’ambito della terapia delle più importanti psicopatologie, come, appunto, in questo caso abbiamo parlato di depressione, disturbo unipolare e bipolare, credo sia corretto citare non soltanto, esattamente, le fonti, ma, soprattutto, citare soltanto fonti che, a loro volta, abbiano condotto indagini scientifiche serie, approfondite e condivise universalmente da studiosi di importanza internazionale sulla materia.

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